Quando il lavoro uccide, la
Spoon River delle vittime
Nelle aziende siciliane un
incidente fatale ogni 7 giorni
Le sorti di chi è morto per
guadagnarsi uno stipendio
Le chiamano morti bianche,
ma di bianco hanno ben poco. Portano con sé il rosso del sangue versato in un
cantiere e il nero nel cuore dei parenti. Gaetano il marinaio, Alessio l’elettricista,
Antonio il poliziotto sono volti e storie che stanno strette nelle statistiche.
Brandelli di ricordi li fanno emergere dal silenzio di una strage quotidiana
che soltanto nel 2017 ha causato in Sicilia 51 morti, più o meno uno alla settimana.
La cis e il comune hanno voluto onorarli ieri a Palermo, istituendo la prima
giornata delle vittime del dovere. A piantare un albero a villa Trabia per
ricordare i tanti morti sul lavoro c’era cinzia D’oca, la moglie dell’operaio Giovanni
Mannino, morto a 41 anni mentre lavorava al cantiere del tram di Palermo. Il suo
sguardo si è spento da quel maledetto 9 aprile 2013. Due figli da crescere e quel
marito sol sorriso stampato sempre sul volto e le sigarette diana in tasca non più
a fianco. Giovanni aveva lavorato come muratore fin quando arrivò l’occasione:
un posto nel cantiere del tram. “Quando andò a parlare con geometra per
chiedere di poter essere assunto, ci andò con mio figlio. Adesso il ragazzo ha
17 anni e da grande vuole fare proprio il geometra”, dice piangendo la signora
Cinzia.
Di giorni maledetti ce n’è
tanti nel calendario delle vittime del dovere. Un cerchio circonda la data del
3 ottobre 2002. Piovigginava e tirava un vento freddo. L’infermiere rianimatore
salvatore Guastella aveva finito il suo turno al 118 e guidava la sua auto su
viale Regione Siciliana, sul sedile del passeggero c’era un mazzo di fiori da
regalare alla moglie per l’anniversario del matrimonio che avrebbero
festeggiato il giorno dopo nella loro casa di Altofonte. All’altezza di villa Tasca
il destino gliel’ha impedito. C’era stato un incidente, lui ha accostato, ha
attraversato la strada e una Bmw l’ha travolto.
Alla camera ardente si
presentò un uomo con un mazzo di fior. Era il signore che Salvatore aveva
provato a soccorrere. I ricordi sbattono forte nelle teste dei parenti. Lo sa
bene Giovanni D’Ambra, il padre di Gaetano, il marinaio morto assieme ad altre
due persone al molo di Messina sulla Sansovino a causa delle esalazioni
tossiche. “Il suo sogno era comandare una nave”, racconta il papà. D’altronde,
il mare era una certezza nella vita di Gaetano. Nato a Lipari, nonno nostromo,
padre imbarcato. Studi al Nautico di Messina. Il destino sembrava segnato., ma
la morte lo ha preso a 29 anni.
Morire per uno stipendio,
spesso per una passione. È il comune denominatore di tante vite. Come quella di
Alessio Iabichella, calciatore di 26 anni del Frigintini, vinto dalle fiamme
divampate in un capannone di Modica dove stava lavorando come elettricista. O del
saldatore Francesco romano, schiacciato a 30 anni da un tubo in un cantiere dell’indotto
del petrolchimico di Gela. Un attimo è bastato per distruggere una famiglia: ha
lasciato sua moglie angela, due figlie piccole e la sua fede interista.
Si muore nei cantieri e pure
a casa. Il forestale Giuseppe Bonincontro è deceduto l’estate scorsa nella usa
abitazione dopo 5 giorni trascorsi a spengere le fiamme nell’-ennese. “Mi manca
il modo tutto suo per farmi capire come va la vita attraverso i “cunti””,
racconta la figlia Luana, scorza dura come il padre. E come quella di Giuseppe
Zaccaria, morto assieme ad altre cinque persone in una vasca del depuratore di
Mineo nella primavera del 2008 per delle esalazioni tossiche. Aveva lottato per
adottare un figlio e alla fine dci era risuscito. Giuseppe, perito industriale,
lavorava all’ufficio tecnico del comune id Minea. “I responsabili continuano ad
andare in ufficio. Io faccio corsi di sicurezza sul lavoro e dico ai ragazzi
che chi sbaglia paga. Ogni volta che lo ripeto mi viene l’amaro in bocca”, dice
il fratello Sandro.
Che magone viene vedendo le
lacrime dei parenti delle vittime del dovere. Che commozione arriva quando si guarda
la foto di Giorgio Grammatico, il vigile del fuoco morto la settimana scorsa a
Catania assieme a Dario Ambiamonte per salvare un pensionato. Un eroe di tutti
i giorni, come Francesco il postino, Antonio l’operaio, Oussmane il bracciante.
La lista è tropo lunga per scorrerla tutta. E di bianco queste morti non hanno proprio
niente: ci sono ili rosso e il nero a macchiar il foglio.
La Repubblica Palermo
31 marzo 2018
Il lavoro che uccide,
“Repubblica” ricorda Romano: in città nessuno commemora chi muore per la
dignità
Di Rosario Cauchi
1 aprile 2018
Gela. Cinquantuno solo lo scorso anno. Sono
questi i dati di una strage silente, quella dei morti sul lavoro in Sicilia. Un
lunghissimo elenco che non smette di essere aggiornato. Repubblica-Palermo,
nell’edizione di ieri, ha deciso di dedicare un approfondimento. Un breve focus
su vite stroncate da un diritto basilare, il lavoro. Nella Spoon River
(richiamando l’Antologia di Edgar Lee Masters) a firma di Giorgio Ruta, c’è
anche il ricordo del trentenne Francesco Romano, schiacciato da un tubo da otto
tonnellate alla radice pontile della fabbrica Eni di contrada Piana del
Signore. Era il novembre del 2012 e per quei fatti è in corso un processo,
arrivato al primo grado di giudizio, contro vertici del cane a sei zampe e
responsabili dell’azienda per la quale lavorava il giovane metalmeccanico.
Romano ha lasciato moglie e due bambine. Quello del trentenne è solo uno dei
casi di un atlante della morte che si abbatte su chi va a lavorare, senza
sapere che non farà mai più ritorno. A Palermo, come ricorda Ruta, proprio ieri
Comune e Cisl hanno scelto di istituire la giornata delle vittime del dovere,
piantando un albero a Villa Trabia. Una testimonianza, forse quasi scontata,
che le istituzioni, troppo spesso distanti dal mondo del lavoro, hanno voluto
garantire.
La lunga scia di morti. Negli ultimi anni, anche in
città si sono susseguite morti bianche. C’è Romano, ma ci sono pure Salvatore
Vittorioso, travolto da un’esplosione sempre in raffineria, così come nella
fabbrica del cane a sei zampe ha perso la vita Antonio Vizzini. C’è poi il
lavoro diventato fatale per Giuseppe Fecondo, morto dopo un gravissimo
incidente nell’area industriale ex Asi, o ancora per Gaetano Accardi, stroncato
nei cantieri per la realizzazione della condotta idrica a Manfria, e per il
quarantaquattrenne Massimo Iacona, schiacciato da una pala meccanica nella
discarica Timpazzo. Ma di lavoro muore anche chi parte per cercarlo. La vita
del ventisettenne Gianluca Caterini è stata spezzata in un cantiere nei pressi
di Ascoli Piceno. Nuccio Pizzardi, invece, lavorava in raffineria a Ravenna
quando venne schiacciato da un serbatoio. Lontano da Gela era Mario Rampulla,
morto all’interporto emiliano di Fontevivo, mentre manovrava un muletto. In
territorio di Butera, Antonio La Porta, Vincenzo Riccobono e Luigi Gaziano,
dipendenti di Rfi, vennero travolti da un treno in transito. La lista nera è
ancora più folta se si aggiungono le decine di incidenti non mortali, che spesso
comunque segnano la vita di chi li subisce. In città, dove il lavoro
muore insieme a chi lo cerca o lo trova, non c’è nessuna commemorazione. Sono
morti e basta.
https://www.quotidianodigela.it/il-lavoro-che-uccide-repubblica-ricorda-romano-in-citta-nessuno-commemora-chi-muore-per-la-dignita/
Nessun commento:
Posta un commento