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sabato 7 aprile 2018

Nelle aziende siciliane un incidente fatale ogni 7 giorni... ma non si tratta di "lavoro che uccide", ma di sistema capitalistico e padroni assassini


Quando il lavoro uccide, la Spoon River delle vittime

Nelle aziende siciliane un incidente fatale ogni 7 giorni
Le sorti di chi è morto per guadagnarsi uno stipendio

Le chiamano morti bianche, ma di bianco hanno ben poco. Portano con sé il rosso del sangue versato in un cantiere e il nero nel cuore dei parenti. Gaetano il marinaio, Alessio l’elettricista, Antonio il poliziotto sono volti e storie che stanno strette nelle statistiche. Brandelli di ricordi li fanno emergere dal silenzio di una strage quotidiana che soltanto nel 2017 ha causato in Sicilia 51 morti, più o meno uno alla settimana. La cis e il comune hanno voluto onorarli ieri a Palermo, istituendo la prima giornata delle vittime del dovere. A piantare un albero a villa Trabia per ricordare i tanti morti sul lavoro c’era cinzia D’oca, la moglie dell’operaio Giovanni Mannino, morto a 41 anni mentre lavorava al cantiere del tram di Palermo. Il suo sguardo si è spento da quel maledetto 9 aprile 2013. Due figli da crescere e quel marito sol sorriso stampato sempre sul volto e le sigarette diana in tasca non più a fianco. Giovanni aveva lavorato come muratore fin quando arrivò l’occasione: un posto nel cantiere del tram. “Quando andò a parlare con geometra per chiedere di poter essere assunto, ci andò con mio figlio. Adesso il ragazzo ha 17 anni e da grande vuole fare proprio il geometra”, dice piangendo la signora Cinzia.
Di giorni maledetti ce n’è tanti nel calendario delle vittime del dovere. Un cerchio circonda la data del 3 ottobre 2002. Piovigginava e tirava un vento freddo. L’infermiere rianimatore salvatore Guastella aveva finito il suo turno al 118 e guidava la sua auto su viale Regione Siciliana, sul sedile del passeggero c’era un mazzo di fiori da regalare alla moglie per l’anniversario del matrimonio che avrebbero festeggiato il giorno dopo nella loro casa di Altofonte. All’altezza di villa Tasca il destino gliel’ha impedito. C’era stato un incidente, lui ha accostato, ha attraversato la strada e una Bmw l’ha travolto.


Alla camera ardente si presentò un uomo con un mazzo di fior. Era il signore che Salvatore aveva provato a soccorrere. I ricordi sbattono forte nelle teste dei parenti. Lo sa bene Giovanni D’Ambra, il padre di Gaetano, il marinaio morto assieme ad altre due persone al molo di Messina sulla Sansovino a causa delle esalazioni tossiche. “Il suo sogno era comandare una nave”, racconta il papà. D’altronde, il mare era una certezza nella vita di Gaetano. Nato a Lipari, nonno nostromo, padre imbarcato. Studi al Nautico di Messina. Il destino sembrava segnato., ma la morte lo ha preso a 29 anni.
Morire per uno stipendio, spesso per una passione. È il comune denominatore di tante vite. Come quella di Alessio Iabichella, calciatore di 26 anni del Frigintini, vinto dalle fiamme divampate in un capannone di Modica dove stava lavorando come elettricista. O del saldatore Francesco romano, schiacciato a 30 anni da un tubo in un cantiere dell’indotto del petrolchimico di Gela. Un attimo è bastato per distruggere una famiglia: ha lasciato sua moglie angela, due figlie piccole e la sua fede interista.
Si muore nei cantieri e pure a casa. Il forestale Giuseppe Bonincontro è deceduto l’estate scorsa nella usa abitazione dopo 5 giorni trascorsi a spengere le fiamme nell’-ennese. “Mi manca il modo tutto suo per farmi capire come va la vita attraverso i “cunti””, racconta la figlia Luana, scorza dura come il padre. E come quella di Giuseppe Zaccaria, morto assieme ad altre cinque persone in una vasca del depuratore di Mineo nella primavera del 2008 per delle esalazioni tossiche. Aveva lottato per adottare un figlio e alla fine dci era risuscito. Giuseppe, perito industriale, lavorava all’ufficio tecnico del comune id Minea. “I responsabili continuano ad andare in ufficio. Io faccio corsi di sicurezza sul lavoro e dico ai ragazzi che chi sbaglia paga. Ogni volta che lo ripeto mi viene l’amaro in bocca”, dice il fratello Sandro.
Che magone viene vedendo le lacrime dei parenti delle vittime del dovere. Che commozione arriva quando si guarda la foto di Giorgio Grammatico, il vigile del fuoco morto la settimana scorsa a Catania assieme a Dario Ambiamonte per salvare un pensionato. Un eroe di tutti i giorni, come Francesco il postino, Antonio l’operaio, Oussmane il bracciante. La lista è tropo lunga per scorrerla tutta. E di bianco queste morti non hanno proprio niente: ci sono ili rosso e il nero a macchiar il foglio.

La Repubblica Palermo
31 marzo 2018

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Il lavoro che uccide, “Repubblica” ricorda Romano: in città nessuno commemora chi muore per la dignità

Di Rosario Cauchi
1 aprile 2018 

Gela. Cinquantuno solo lo scorso anno. Sono questi i dati di una strage silente, quella dei morti sul lavoro in Sicilia. Un lunghissimo elenco che non smette di essere aggiornato. Repubblica-Palermo, nell’edizione di ieri, ha deciso di dedicare un approfondimento. Un breve focus su vite stroncate da un diritto basilare, il lavoro. Nella Spoon River (richiamando l’Antologia di Edgar Lee Masters) a firma di Giorgio Ruta, c’è anche il ricordo del trentenne Francesco Romano, schiacciato da un tubo da otto tonnellate alla radice pontile della fabbrica Eni di contrada Piana del Signore. Era il novembre del 2012 e per quei fatti è in corso un processo, arrivato al primo grado di giudizio, contro vertici del cane a sei zampe e responsabili dell’azienda per la quale lavorava il giovane metalmeccanico. Romano ha lasciato moglie e due bambine. Quello del trentenne è solo uno dei casi di un atlante della morte che si abbatte su chi va a lavorare, senza sapere che non farà mai più ritorno. A Palermo, come ricorda Ruta, proprio ieri Comune e Cisl hanno scelto di istituire la giornata delle vittime del dovere, piantando un albero a Villa Trabia. Una testimonianza, forse quasi scontata, che le istituzioni, troppo spesso distanti dal mondo del lavoro, hanno voluto garantire.

La lunga scia di morti. Negli ultimi anni, anche in città si sono susseguite morti bianche. C’è Romano, ma ci sono pure Salvatore Vittorioso, travolto da un’esplosione sempre in raffineria, così come nella fabbrica del cane a sei zampe ha perso la vita Antonio Vizzini. C’è poi il lavoro diventato fatale per Giuseppe Fecondo, morto dopo un gravissimo incidente nell’area industriale ex Asi, o ancora per Gaetano Accardi, stroncato nei cantieri per la realizzazione della condotta idrica a Manfria, e per il quarantaquattrenne Massimo Iacona, schiacciato da una pala meccanica nella discarica Timpazzo. Ma di lavoro muore anche chi parte per cercarlo. La vita del ventisettenne Gianluca Caterini è stata spezzata in un cantiere nei pressi di Ascoli Piceno. Nuccio Pizzardi, invece, lavorava in raffineria a Ravenna quando venne schiacciato da un serbatoio. Lontano da Gela era Mario Rampulla, morto all’interporto emiliano di Fontevivo, mentre manovrava un muletto. In territorio di Butera, Antonio La Porta, Vincenzo Riccobono e Luigi Gaziano, dipendenti di Rfi, vennero travolti da un treno in transito. La lista nera è ancora più folta se si aggiungono le decine di incidenti non mortali, che spesso comunque segnano la vita di chi li subisce.  In città, dove il lavoro muore insieme a chi lo cerca o lo trova, non c’è nessuna commemorazione. Sono morti e basta.

https://www.quotidianodigela.it/il-lavoro-che-uccide-repubblica-ricorda-romano-in-citta-nessuno-commemora-chi-muore-per-la-dignita/

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