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giovedì 10 ottobre 2013

Inchiesta in Sicilia: Veleni, processi e risarcimenti, il sogno malato dei petrolchimici

“Chernobyl, provincia di Caltanissetta”. La frase, oramai illeggibile, sbiadita dalla pioggia, cancellata dal tempo, campeggia da anni su un vecchio guardrail della statale 115, alle porte di Gela. Sullo sfondo, i fumi delle ciminiere, neri come il petrolio, si allungano come tentacoli sulla città e se la prendono. Gela, provincia di Caltanissetta. Benvenuti nel paese dove si muore prima ancora di nascere. Si muore di tumore, di leucemia; si muore schiacciati dalle esalazioni, a volte dalle macchine, si muore all'interno dei reparti e muore anche chi sta fuori, nelle abitazioni non distanti, nelle città. Sono le Ilva di Sicilia: Gela, ma anche Milazzo, Priolo, Melilli e Augusta. Questa volta l'allarme arriva dal più autorevole dei pulpiti: l'Organizzazione mondale della Sanità, che in uno studio di oltre 1200 pagine presentato a inizio mese, passa al setaccio, centimetro dopo centimetro, la vita e l'ambiente dei siciliani nelle aree a rischio dell'Isola. I risultati sono inquietanti: falde imbottite di mercurio a Gela, cloro nel latte materno ad Augusta, polveri di amianto nell'aria di Priolo e acque all'arsernico nel mare di Milazzo. Sessantamila le tonnellate di sostanze tossiche rilasciate ogni anno dalle multinazionali del carburante nei cieli della regione. Una montagna di veleni che ogni anno uccide più di 300 persone. I decessi per tumore sono maggiori del 12 per cento rispetto ala media europea. Il rischio di ammalarsene sfiora l'ottanta per cento delle possibilità


Veleni e mancate bonifiche così si ci ammala nelle città dei petrolchimici


Il rapporto dell'Oms sulle Ilva dell'isola


La maggior parte delle vittime ha lavorato negli stabilimenti. L'Oms le ha contate nella piccola San Filippo del Mela, a pochi chilometri da Milazzo. L'ì aveva sede la ex Sacelit, fabbrica con 220 dipendenti. Più della metà, ben 115 operai, sono morti sotto la scure dei mesoteliomi causati dall'esposizione all'amianto. Le polveri poi non risparmiano i più piccoli: sono preoccupanti i dati sulle malformazioni genetiche che raccontano di come i rischi nelle città dei poli industriali sono addirittura sei volte superiori alla media.


NASCERE MALATI
Bimbi con sei dita alle mani o ai piedi. Alcuni nati senza un orecchio, altri senza il palato. Idrocefali con teche craniche di dimensioni abnormi. Sulla vicenda indaga la Procura di Gela che lo scorso anno ha aperto un'inchiesta per far luce sulle responsabilità sugli oltre 30 casi di bambini affetti da gravi patologie generiche. Filippo Astuti, 33 anni e senza lavoro, è il padre di una delle vittime. Nel 2006 sua figlia è nata con una grave palatoschisi, una malformazione del palato che comporta il pieno contatto fra la zona del naso e della bocca con seri problemi all'alimentazione, allo sviluppo del linguaggio e un alto rischio di infezioni broncopolmonari. Otto mesi di ricovero e due interventi molto delicati il lungo calvario di una bambina di appena 6 anni. Due anni più tardi, sua moglie è costretta a interrompere un'altra gravidanza. Il feto di 5 mesi che porta in grembo soffre di un irreversibile difetto natale. “Siamo stanchi – dice Astuti - stanchi di stare a guardare. Abbiamo visto centinaia di medici. Girato decine di ospedali. Ci hanno detto che la causa è l'inquinamento. Ora però vogliamo giustizia. Vogliamo la verità sull'aria che stiamo respirando.”
La verità in realtà era stata già scritta dieci anni prima dal geologo Giuseppe Risotti e dal chimico Luigi Turrito in un lungo dossier inserito nel rapporto dell'Oms. Incaricati nel 2002 dal sostituto procuratore Serafina Cannata, i due ricercatori consegnarono una relazione secondo cui nella falda sottostante lo stabilimento di Gela giacevano 44 mila tonnellate di gasolio proveniente dalle perdite dei serbatoi. In quello stesso anno, sempre a Gela, uno studio realizzato dal genetista Sebastiano Bianca, uno dei massimi esperti nel campo, e dall'epidemiologo del Cnr Fabrizio Bianchi, riscontrò in città un'incidenza del 4 per cento di malformazioni sui neonati e più di 520 bambini affetti da patologie genetiche. Si chiamano indocrine disruptors, distruttori endocrini. Sostanze artificiali prodotte da inquinanti come quelli emessi dalle raffinerie, in grado di intaccare i recettori ormonali, causando tumori, difetti alla nascita e disturbi dello sviluppo. Una di queste è il policlorobifenolo, la cui tossicità in alcuni casi è paragonata a quella della diossina. Secondo i dati forniti dall'Oms, il latte delle donne della provincia di Siracusa ne contiene il 30 per cento in più rispetto alla media regionale e forse non è un caso che proprio nel polo di Augusta nel 2000 il 5 per cento dei bambini è nato con malformazioni. Sei anni più tarsi la Syndial, società del gruppo Eni, sborsò circa 11 milioni di euro per i cento casi di bambini malformati. Una sorta di risarcimento preventivo prima di arrivare ad una sentenza che avrebbe pregiudicato il nome dell'azienda. La Syndial pagò, le famiglie incassarono e la vicenda, ancora una volta, cadde nel silenzio.


BONIFICHE FANTASMA
Nelle città dei veleni non è solo l'aria ad uccidere. Anche la terra nasconde la sua peste. Le falde dei poli industriali sono imbottite di sostanze tossiche, a Gela, per esempio, lo studio dell'Oms ne riscontra una presenza migliaia di volte superiore alla media. Sono sostanze che per legge le aziende avrebbero dovuto rimuovere. Cosa che non sempre è accaduta.
“Bonificare fa bene all'economia – dice Enzo Parisi, responsabile del dipartimento regionale di Legambiente per il settore industria, rifiuti ed energia – ma fa più bene alla salute e all'ambiente. Immaginate le vite che si potrebbero salvare ogni anno attuandole e il verde che si potrebbe far rinascere. E invece più del 75 per cento della vegetazione entro il raggio di un chilometro dalle fabbriche è andato distrutto”.
La Regione negli ultimi vent'anni ha erogato circa 40 milioni di euro per la bonifica delle aree industriali a rischio, da quello di Augusta-Priolo-Melilli a quella di Gela e, per ultimo, al comprensorio di Milazzo-San Filippo del Mela. Tutto è stato fatto tranne quello che doveva essere fatto: almeno un terzo dei fondi se ne sono andati per il mantenimento delle strutture commissariali, per pagare gli straordinari del personale, i compensi dei tanti esperti scomodati, gli studi commissionati, i progetti, persino la pubblicazione di bandi di gara poi mai espletati, così, dal 1990 le falde siciliane rimangono ancora infestate dai veleni. Vent'anni dopo, le dichiarazioni di aree a rischio a Siracusa e Gela, reiterate per 15 anni, il massimo previsto dalla legge, sono decadute. Nessuno sa come sono stati spesi quei soldi e dove sono finiti e soprattutto in nessuno dei territori a forte rischio ambientale è stata realizzata una rete di monitoraggio che permetta ai cittadini di sapere se e quanto veleno respirano ogni giorno.


MALATTIE SENZA LAVORO
Una volta c'era l'occupazione a tenere cucite le bocche. Nella Sicilia del dopoguerra, migliaia di posti di lavoro piombati sul deserto di città come Priolo e Melilli, rappresentarono una vera e propria manna dal cielo. Quando arrivarono le malattie, in molti chiusero un occhio. In fondo, dicevano, anche i soldati muoiono in guerra. Oggi il colpo di grazia alle aziende del petrolchimico arriva proprio dalla crisi. Da quei posti di lavoro che non ci sono più. L'Oms dedica un intero capitolo alla situazione socioeconomica dei poli siciliani. L'occupazione dagli inizi degli anni Ottanta è scesa da undicimila e cento unità lavorative ad appena settemila. “Dal dopoguerra ad oggi il greggio in Sicilia ha bruciato più del 50 per cento dei posti di lavori creati”, scrivono i ricercatori nel rapporto. Li chiamano “svecchiamenti”, esuberi senza rimpiazzamenti. Tra gli operai mandati a casa, molti sono malati di tumore. L'offerta dell'azienda è una maxi-liquidazione in cambio del loro silenzio. Una formula che non serve solo a sfoltire l'organico ma soprattutto a mettere una pietra sulle pericolose richieste di risarcimento dei lavoratori. È meglio mandarli in pensione gli operai malati di tumore. E una montagna di quattrini è un'offerta più che ragionevole. A patto che non parlino. Perché una volta fuori, e incassati i soldi, non potranno mai più fare causa all'azienda. Come il caso dell'operaio denunciato da Repubblica lo scorso 12 settembre. Giuseppe (il nome è di fantasia ndr), ha lavorato per più di 30 anni alla Esso. Da sette anni è affetto da una grave patologia tumorale all'esofago. L'azienda lo ha mandato a casa con un “premio” consistente (oltre 100 mila euro). A una condizione: al punto 6 in una copia del contratto arrivata alla redazione di “Repubblica” Palermo, l'operaio “dichiara di rinunciare, in via sostanziale e definitiva, a qualsiasi risarcimento danni nei confronti dell'azienda, a qualunque titolo, anche biologico”. E mentre i sindacati parlano di “condizioni inammissibili davanti a qualsiasi giudice”, in una lettera inviata alla nostra redazione, la Esso si difende dalle accuse: “La nostra azienda non ha infranto alcuna regola. Quei contratti sono stati accettati su base volontaria”.
Continuano invece a Gela le indagini della Procura su altri sospetti d'insabbiamento. Sotto esame l'operato dell'Eni e delle società ad esso correlate (Anic, Enichem e Praoil). Diciassette gli indagati per omicidio colposo. Tra le accuse più gravi rivolte all'azienda, quella di aver nascosto per decenni gli esami clinici dei dipendenti con livelli preoccupanti di mercurio nel sangue. Il reparto in questione è il Clorosoda: cinquantadue celle imbottite di amianto e mercurio. I lavoratori lo raccoglievano con secchi e mestoli.

Pochi giorni dopo la morte di suo padre, che al Clorosoda aveva lavorato per più di vent'anni, Massimo Grasso ricevette una busta senza mittente contenente alcuni documenti relativi alle attività svolte dai lavoratori del reparto. Tra le carte allegate al plico, gli esami delle urine a cui venivano periodicamente sottoposti gli operai. “Analizzando i documenti – racconta – riscontrammo subito alcune gravi anomalie”. I valori mercuriali fuori dai parametri legali (quelli dell'operaio Grasso erano 4 volte superiori alla media) non erano stati registrati nel libretto sanitario personale dei lavoratori che rimanevano all'oscuro di tutto. Accanto all'asterisco, i medici scrivevano: “Far ripetere (gli esami, ndr) al più preso e far ruotare di posizione”. I lavoratori a quel punto venivano trasferiti in altri settori dell'impianto meno rischiosi. Quando però i valori tornavano nei limiti di tollerabilità, gli operai venivano ritrasferiti nei reparti d'origine. “Insomma – continua Massimo – l'azienda sapeva che il mercurio s'infiltrava lentamente nel sangue dei suoi dipendenti. E l'unico provvedimento era quello di nascondere gli esami clinici agli operai stessi e trasferirli in altri settori in attesa che il mercurio tornasse ai livelli normali”. Il processo continua. Ma molti degli operai non saranno presenti li giorno che arriverà la sentenza. Oggi, solo la metà di loro partecipa alle udienze contro i vertici della raffineria che li aveva costretti a lavorare in quelli condizioni. Il resto si è ammalato di tumore: 12 sono già morti. Gli altri (circa 105 lavoratori) lottano per rimanere in vita. Per guardare in faccia i responsabili. Per non morire senza giustizia.

La Repubblica Palermo
6/10/2013

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